Rischio
epidemia, solo il prefetto può decidere
di rivelare il nome di un malato violando la privacy
Il
caso di Sars a Bologna solleva problemi di carattere legale, oltre che
sanitario. Finora, come già negli altri casi italiani, è prevalsa la
linea di non diffondere i dati dei malati. Ma, di fronte a un allarme
come questo, quando decade il diritto alla privacy di una persona, in
nome del bene collettivo? Lo abbiamo chiesto al professor Ugo Ruffolo
(nella foto), giurista di fama nonché esperto di problemi legati alla
privacy.
«La
legge 675 del 31 dicembre '96 che detta le nuove norme sulla privacy,
all'articolo 23 vieta categoricamente di diffondere dati inerenti alla
salute di un cittadino. Non esiste una norma specifica in caso di
pericolo di epidemie.
Per
questo bisogna rifarsi al Testo unico di pubblica sicurezza, che
conferisce ai prefetti il potere di disporre i provvedimenti necessari
per evitare la diffusione della malattia infettiva. Quindi, in teoria,
anche di rendere noti i dati personali di una persona, per allertare chi
ha avuto contatti con questa.
Oltre
a tutto ciò l'ordinamento italiano prevede lo 'stato di necessità',
una situazione che può bypassare qualunque altra legge.
Professore, il rischio è di creare un 'untore', anche se evidentemente
la donna canadese non ha colpa...
«Finora, nei casi di Sars che si sono registrati in Italia è stata
scelta la linea della non diffusione dei nomi, o del luogo di residenza.
E questa scelta è motivata dal fatto che il panico potrebbe causare più
danni della prevenzione. Immagini se una persona pensa di essere stata
in fila al supermarket con questa signora...».
C'è un precedente: la prostituta ravennate malata di Aids di cui le
autorità decisero di dare agli organi di stampa persino la foto.
«Quella era una situazione diversa. In quel caso si volevano anche
scongiurare pericoli di reato. E la prostituta era dipinta come un
'untore' consapevole. Qui non ci sono reati, ma l'autorità potrebbe
invocare la finalità superiore della salute pubblica in caso di
epidemia».
Nicoletta Rossi IL RESTO DEL CARLINO DI BOLOGNA